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Avviso di addebito INPS – Gestione commercianti: ancora una vittoria nel merito

gestione commercianti avviso di addebito inpsIl periodo post Covid ha visto un aumento vertiginoso del contenzioso previdenziale, soprattutto in relazione ai numerosi avvisi di addebito (Gestione commercianti avviso di addebito INPS) che, dopo lo stop imposto durante la pandemia, sono stati notificati ai privati e alle aziende.

Cosa è l’avviso addebito INPS della gestione commercianti?

Sempre molto “caldo” rimane il tema della Gestione Commercianti, alla quale l’INPS iscrive in automatico tutti gli imprenditori, siano esse ditte individuali o soci di società di persone, per il solo fatto di esercitare un attività di tipo “commerciale”.

Nonostante una giurisprudenza ormai quasi del tutto consolidata, per la quale il mero svolgimento di attività commerciale non comporta l’obbligo di iscrizione se non accompagnata da un effettivo esercizio in prima persona dell’attività e una sua abitualità e prevalenza rispetto a qualsiasi altra attività esercitata, l’INPS continua a inviare gli avviso di addebito in base alla sola iscrizione alla Camera di Commercio.

Termine breve per impugnare

E, purtroppo, dobbiamo registrare che gli avvisi di addebito, complice il termine brevissimo per impugnare (solo 40 giorni dalla notifica), spesso divengono definitivi, con grave nocumento per i contribuenti che si trovano costretti a pagare importi ingenti (circa 4.000,00 euro per un’annualità contributiva) per contributi di fatto non dovuti.

Come annullare e fare opposizione all’avviso di addebito?

Il Giudice del Lavoro di Roma, sulla scia di altri precedenti, ha recentemente annullato altri due avvisi di addebito impugnati dallo Studio.

Al di là della fattispecie concreta (soci di snc che aveva quale unico introito l’affitto dell’unico immobile di proprietà) la pronuncia va segnalata per aver ulteriormente ribadito che comunque “perché scatti l’obbligo di iscrizione alla Gestione Commercianti è necessario che il socio partecipi al lavoro aziendale in via abituale e prevalente rispetto agli altri fattori della produzione, cioè svolga in prima persona l’attività commerciale per la quale la società è stata costituita e la sua partecipazione sia abituale e prevalente rispetto agli altri fattori produttivi.

Ciò che rileva è unicamente la partecipazione diretta del socio, con il proprio lavoro, all’attività commerciale della società, partecipazione diretta che non è stata in alcun modo provata dall’ente previdenziale su cui incombeva il relativo onere probatorio (Cass. Lav., 26.02.2016, n. 3835; nello stesso senso, cfr. Cass. Lav., 28.02.2017, n. 5210)”(Tribunale di Roma, Sezione Lavoro Dott.ssa De Renzis sentenze 6496/2023 e 6503/2023 del 20 giugno 2023)

E’ importante sottolineare che la prova della partecipazione diretta all’attività commerciale, che la giurisprudenza vuole precisa e rigorosa, è a totale carico dell’Ente Previdenziale, il quale solitamente non ha alcun elemento a supporto, se non la mera iscrizione alla Camera di Commercio.

Come affidare l’avviso di addebito al nostro Studio Legale?

Se hai ricevuto un avviso di addebito dell’INPS chiamaci al 333.1905272 e in poco tempo sapremo dirti se l’iscrizione (e la relativa contribuzione) è dovuta e in caso provvedere a far annullare il provvedimento illegittimo.

Contatta il nostro Studio al numero 333.1905272 oppure collegandoti alla pagina dei Contatti e compilando il form.

Links utili
INPS – www.inps.it
CAMERA COMMERCIO ROMA – https://www.rm.camcom.it/

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Docenti non vaccinati sospesi, ma assenti per malattia: diritto agli stipendi e alla contribuzione trattenuti

Docenti non vaccinati sospesi: un caso concreto

Riguardo il tema dei docenti non vaccinati sospesi, il Giudice del Lavoro di Roma ha accolto integralmente la richiesta del Ns Cliente di vedersi riconosciuti tutti emolumenti illegittimamente trattenuti a seguito della sospensione per inosservanza dell’obbligo vaccinale ai sensi dell’art.4 ter del DL 44/2021 del 10.1.2022.

Il docente, già in malattia a decorrere dal settembre 2021, era stato sospeso dalla retribuzione a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 4 del DL 44/2021, oggi di fatto abrogato, che imponeva a tutto il personale docente di produrre nei termini prescritti la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione.

Nonostante fosse stato fatto presente lo status di malattia pregressa e nonostante lo stesso Ministero con la nota n. 1927 del 17 dicembre 2021 e la successiva nota n. 1929 del 20.12.2021, avesse già chiarito che l’obbligo vaccinale si applicava a tutto il personale scolastico incluso quello assente dal servizio tranne nelle ipotesi tassativamente indicate, tra cui risultava il versare nelle condizioni di infermità, previste dalla normativa vigente e certificate dalle competenti autorità sanitarie, che determinano l’inidoneità temporanea o permanente al lavoro, il docente era stato sospeso dalla retribuzione e dalla contribuzione per tutto il periodo successivo fino al giugno 2022, data di riammissione in servizio di tutto il personale docente anche non vaccinato.

Il Giudice del Lavoro di Roma

Il Giudice del Lavoro di Roma, con sentenza del 24 maggio 2023, ha sancito l’illegittimità del provvedimento di sospensione posto che il docente si trovava proprio in malattia e quindi in una condizione di legittima sospensione dalla prestazione lavorativa.

Secondo il Giudice del Lavoro “Il DL 172/2021 va esente da censure di illegittimità costituzionale solo a condizione che l’obbligo vaccinale e la relativa sospensione senza stipendio in caso di inottemperanza da parte del personale scolastico siano strettamente connessi alla tutela del diritto alla salute, evitando la diffusione del virus.
Ciò presuppone che il lavoratore o la lavoratrice della scuola prestino effettivamente attività lavorativa, perché solo così la mancata vaccinazione costituisce un potenziale pericolo di contagio”
Da qui l’accoglimento del ricorso posto che “la sospensione è stata disposta in costanza di legittima assenza del docente dal servizio e dunque dal luogo di lavoro, per cui non risulta sorretta da alcuna prevalente esigenza di tutela dell’interesse collettivo alla salute”.

Docenti non vaccinati sospesi: la condanna del Ministero

Il Ministero è stato quindi condannato a corrispondere le retribuzioni illegittimamente trattenute, nonché la relativa contribuzione, oltre al riconoscimento di ogni elemento dovuto e non maturato per effetto della sospensione stessa, quali ferie e permessi.

Contatta il nostro Studio al numero 333.1905272 oppure collegandoti alla pagina dei Contatti e compilando il form.

Link utili
ORIZZONTE SCUOLA – https://www.orizzontescuola.it/
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE E MERITO – 
https://www.miur.gov.it/

 

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GESTIONE COMMERCIANTI INPS: Attenzione alla presunzione illegittima di attività prevalente e abituale

Da qualche anno a questa parte assistiamo ad una forte intensificazione delle iscrizioni d’ufficio da parte dell’INPS nella c.d. Gestione Commercianti INPS.

Molte persone infatti, per il solo fatto di essere Amministratori o meri Soci di società di persone o di capitali attive in via più o meno indiretta nel settore delle attività commerciali, si sono visti notificare atti di iscrizioni d’ufficio nella gestione commercianti, anche retroattive, con obbligo di versare interi trimestri già scaduti di contributi, oltre interessi e sanzioni, per cifre spesso molto alte.

Questo perchè  l’INPS presume che rivestire la carica di Amministratore e comunque di Socio all’interno di una azienda comporti anche rendere un’attività prevalente e abituale all’interno della stessa, con relativo obbligo di iscrizione e di versamento dei contributi.

In realtà non sempre queste iscrizioni sono dovute, in quanto è l’INPS a dover dimostrare che l’iscritto svolga effettivamente un’attività commerciale in via abituale e prevalente, e non il contrario, e pertanto l’iscrizione dovrebbe avvenire solo dopo un’effettiva istruttoria svolta dall’Ente Previdenziale  circa il ruolo del socio o dell’Amministratore all’interno della Società.

L’iscrizione quindi non può essere fatta d’ufficio, nè può desumersi esclusivamente dal tipo di Società di cui si è soci e/o Amministratori.

Pertanto una volta ricevuto il relativo atto di accertamento della Gestione Commercianti INPS, ovvero direttamente l’avviso di addebito dell’INPS, è fondamentale rivolgersi ad un professionista per verificare se è possibile o meno impugnare il provvedimento.

Il fattore tempo è fondamentale: sia l’atto di accertamento che l’avviso di addebito hanno termini di impugnazione strettissimi (dai 30 ai 40 giorni dalla notifica a seconda dei casi), e quindi è importante non farli scadere.

Se hai ricevuto un provvedimento dell’INPS chiamaci, e in poco tempo sapremo dirti se l’iscrizione (e la relativa contribuzione) è dovuta e in caso provvedere a far annullare il provvedimento illegittimo.

Contatta il nostro Studio al numero 06.39733232 oppure collegandoti alla pagina dei Contatti e compilare il form.

Sito web INPS: www.inps.it

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Divieto dei licenziamenti nel Decreto Rilancio: vuoto normativo e tutela del lavoratore

Il decreto Rilancio  (art. 80 del DL 19 maggio 2020 n. 34) come noto ha esteso il divieto dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo per un totale di 5 mesi, prorogando quindi al 17 agosto 2020 la scadenza inizialmente prevista dal Cura Italia (art. 47 DL 17 marzo 2020 n. 18, convertito nella legge n. 27/2020) al 17 maggio 2020.

Divieto dei licenziamenti e vuoto normativo temporale

L’iter normativo, e soprattutto la tempistica nella pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del DL Rilancio, hanno determinato però un vuoto temporale tra lo spirare del termine iniziale di divieto dei licenziamenti, come detto, in 60 giorni, e l’entrata in vigore della norma che ha esteso i 60 giorni ad un periodo complessivo di 5 mesi, così determinando un vuoto normativo di due giorni (17 e 18 maggio 2020) entro cui sono stati comunque operati dei licenziamenti, o sono divenuti operativi quelli rimasti sospesi o preclusi in base al DL Cura Italia in ragione della grave situazione emergenziale in corso.    

Ed infatti, indipendentemente dalla possibilità o meno di “approfittare” del breve vuoto normativo predetto, può essersi sicuramente verificato che imprese in crisi, costrette a dover chiudere definitivamente la loro attività, abbiano comunque irrogato licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ancorché in aperta violazione del divieto normativo, accettando il rischio di un eventuale contenzioso diretto a farne accertare l’invalidità.

E ciò in quanto comunque la nullità di un licenziamento per violazione di legge è conseguenza che deve pur sempre essere accertata in sede giudiziale e non è di automatica applicazione.    

Fra l’altro proprio la scelta delle modalità di intervento del Legislatore in una materia tanto complessa presta il fianco a evidenti censure in sede giudiziali, in primis in quanto si è deciso di intervenire pesantemente nelle gestione dei rapporti di lavoro, incidendo in maniera significativa e per un periodo prolungato sulla libertà di impresa sancita dall’art. 41 Cost.

Utilizzo di una norma retroattiva

In secondo luogo in quanto è stata usata una tecnica legislativa, quella una norma retroattiva (il DL Rilancio ha semplicemente sostituito il termine di 60 gg previsto dal DL Cura Italia con quello di 5 mesi), che è chiaramente derogatoria  al principio generale della irretroattività della legge ( art. 11 pre-leggi) che presuppone il limite della ragionevolezza e del bilanciamento con altri valori e interessi costituzionalmente protetti da valutarsi in concreto caso per caso. Con la conseguenza che nel bilanciamento fra pro e contro, alcune imprese hanno accettato l’alea dell’eventuale giudizio di impugnativa e hanno deciso di procedere comunque a licenziamenti per GMO.    

L’intervento dell’INPS

Sul punto è intervenuto anche l’INPS, che si è trovato a dover gestire richieste di erogazione dell’indennità di disoccupazione NASpI da parte di lavoratori che hanno cessato involontariamente il rapporto di lavoro con la causale di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nonostante la preclusione legislativa.     L’INPS (con messaggio 2261 del 1° giugno 2020),  ha precisato che l’indennità di disoccupazione NASpI deve essere comunque riconosciuta a tutti i lavoratori che abbiano perso involontariamente il lavoro nel periodo di vigenza del divieto suddetto, e ciò al fine di tutelare comunque il lavoratore che comunque si è trovato privato del posto di lavoro senza possibilità di ottenere nel breve periodo una pronuncia di legittimità o meno del comportamento datoriale (ricordiamo infatti che nel medesimo periodo è stata sospesa ogni tipo di attività giudiziaria, con conseguente paralisi di ogni forma di tutela).    

E’ ovvio tuttavia che l’INPS si riserva fin da ora di ripetere (ovvero richiedere indietro) quanto erogato a titolo di NASpI nell’ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di contenzioso giudiziale o stragiudiziale, ponendo quindi a carico del lavoratore l’oneredi comunicare all’INPS, ai fini del recupero dell’indebito, l’esito eventualmente favorevole del contenzioso.    

Pertanto, sia che il lavoratore licenziato invalidamente per violazione del divieto di cui all’art. 46 DL Cura Italia e successive modifiche usufruisca della tutela cd. reintegratoria piena ai sensi dell’art. 18 St. Lav. sia della tutela reintegratoria prevista dalla normativa sulle tutele crescenti in caso di licenziamento nullo dovrà, se reintegrato nel posto di lavoro, restituire la NASpI ricevuta.     L’INPS ha inoltre previsto che la restituzione di quanto percepito a titolo di NASpI opera anche nel caso in cui – in attuazione della disposizione di cui al comma 1-bis dell’articolo 46 del decreto-legge n. 18 del 2020 – il datore di lavoro revochi il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con contestuale richiesta per il lavoratore riassunto del trattamento di cassa integrazione salariale, al fine di evitare la fruizione di un doppio beneficio non dovuto.

Da ultimo l’INPS ha espressamente escluso che la NASpI spetti ai collaboratori domestici, poichè non ricadono nell’ambito di operatività del divieto di licenziamento ex art. 46 DL Cura Italia e successive modifiche, in quanto assoggettati al regime di libera recedibilità.  

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licenziamenti cura italia

IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO NEL DECRETO CURA ITALIA parte 2

IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO NEL DECRETO CURA ITALIA parte 2

Può accadere che in casi particolari le misure di sostegno del reddito adottate dal Decreto “Cura Italia” potrebbero non trovare reale applicazione, con il rischio per alcuni datori di lavoro di trovarsi nelle condizioni di avere l’azienda chiusa e comunque il personale dipendente a totale carico.

In assenza di strumenti organizzativi e contrattuali a disposizione dell’impresa, allora potrebbe prendersi in considerazione l’ipotesi di una sospensione unilaterale della prestazione lavorativa.

Ed infatti non può trascurarsi l’indirizzo giurisprudenziale abbastanza consolidato e recente secondo cui: “la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata, ed esonera il medesimo datore dall’obbligazione retributiva, soltanto quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero a contingenti difficoltà di mercato. La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all’allegata situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell’impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell’impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa in mansioni equivalenti, è giustificato il rifiuto del datore di lavoro di riceverla(Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 27-05-2019, n. 14419).

Pertanto riscontrati entrambi i requisiti, ovvero l’impossibilità da parte del datore di lavoro di utilizzare in alcun modo la prestazione lavorativa per causa non imputabile allo stesso e dall’altra l’impossibilità di riutilizzo in altra mansione, si può ipotizzare una legittimità della sospensione unilaterale del rapporto di lavoro con conseguente sospensione altresì dell’obbligazione retributiva.

E’ ovvio che si tratta di situazioni residuali, relative a posizioni che non possono essere coperte dalla CIG in deroga o da altre forme di sostengo al reddito (lavoro agile, smart working, permessi e congedi e altro) e che si sostanziano in una extrema ratio essendo ad oggi per tali categorie vietato il licenziamento.

Da ultimo, si segnala che l’art. 91 del Decreto governativo, modificando il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13) ha disposto che il rispetto delle misure governative di contenimento COVID è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.

In pratica questa norma speciale (rispetto alle disposizioni codicistiche) rende giustificabile e scusabile il ritardato o il mancato pagamento a condizione che questo sia conseguenza delle misure autoritative per il contenimento dell’epidemia (c.d. factum principis), sicché se, ad esempio, il Decreto impone al soggetto la chiusura della propria attività lavorativa ciò dovrebbe rilevare al fine di giustificare l’inadempimento (poiché appunto “… Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto…è sempre valutato…”).

In altre parole la misura di contenimento potrà esimere da responsabilità il debitore solo nel caso in cui abbia costituito impedimento all’adempimento non superabile con l’ordinaria diligenza: appare comunque chiaro che l’onere della prova per il debitore si profili come semplificato qualora venga dimostrato che l’inadempimento è maturato nel contesto dell’emergenza e per necessità del rispetto delle norme di contenimento.

In ogni caso deve sussistere il nesso di causalità tra la misura di contenimento della pandemia che si è dovuto rispettare e l’impossibilità; tale nesso causale, fatto salvo un alleggerimento della prova – in sede di valutazione giurisprudenziale – nell’ambito dell’interpretazione teleologica della norma, resta comunque a carico del debitore.

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CASSA INTEGRAZIONE PER CAUSALE COVID 19

CASSA INTEGRAZIONE PER CAUSALE COVID 19

Con il decreto cd. Cura Italia sono stati inseriti con decorrenza dal 23 febbraio 2020 e fino al 31 agosto, tutta una serie di ammortizzatori sociali volti a salvaguardare i livello occupazionali a fronte della chiusura più o meno generalizzata della maggior parte delle attività produttive del Nostro Paese.

Si tratta della cassa integrazione ordinaria, della Cassa Integrazione in deroga, dell’assegno ordinario erogato dal Fondo di integrazione salariale (FIS) o dai fondi di solidarietà di settore.

Si tratta come detto di ammortizzatori sociali creati ad hoc uguali per alcuni aspetti, come la durata massima, pari per tutti a 9 settimane, ma differenti per altri, tra cui le procedure da seguire per la loro erogazione e la platea di lavoratori ai quali spettano.

Vediamo quali sono:

1. NUOVA CASSA INTEGRAZIONE ORDINARIA (art. 19)

I datori di lavoro che nell’anno 2020 sospendono o riducono l’attività lavorativa per l’emergenza COVID-19, possono presentare domanda di trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all’assegno ordinario con causale “emergenza COVID-19”, per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 al mese di agosto 2020 per il personale in forza alla data del 23 febbraio 2020, anche privo del requisito dei 90 giorni di anzianità aziendale.

Le novità che riguardano le CIGO richiesta per ragioni strettamente connesse all’epidemia da COVID-19 sono:

a. l’estensione dell’integrazione a tutti i dipendenti in forza all’azienda che ne faccia richiesta al 23 febbraio, a prescindere dall’anzianità e tipologia contrattuale (con l’eccezione dei lavoratori in somministrazione cui spetta un trattamento ad hoc);

b. la CIGO con causale “COVID-19 nazionale” viene concessa per un periodo massimo di 9 settimane che, in caso di successive richieste, non saranno computate ai fini del limite massimo di CIGO ottenibile;

c. l’abbreviazione della procedura di consultazione sindacale, che può essere conclusa anche in via telematica in tre giorni (anziché 25) citando l’apposita causale;

d. lo snellimento della procedura di domanda, per la quale l’impresa non dovrà fornire alcuna prova in ordine alla transitorietà dell’evento e alla ripresa dell’attività̀ lavorativa né, tantomeno, dimostrare la sussistenza del requisito di non imputabilità̀ dell’evento all’imprenditore o ai lavoratori;

e. nessun contributo aggiuntivo è dovuto dall’azienda.

2. CASSA INTEGRAZIONE ORDINARIA IN SOSTITUZIONE DELLA STRAORDINARIA (Art 20)

Le aziende che alla data del 23 febbraio 2020 avevano in corso un trattamento di integrazione salariale straordinario, possono presentare domanda di concessione del trattamento ordinario che sospende e sostituisce il trattamento di integrazione straordinario già in corso.

Le imprese in regime di CIGS pertanto possono richiedere fino a 9 settimane di CIGO con la causale COVID-2019: l’erogazione della CIGO sarà effettuata direttamente dall’INPS ai lavoratori e sospende il decorso della CIGS, che riprende ad esaurimento del periodo di CIGO.

Non si applica il contributo addizionale previsto dall’art. 5 d.lgs 148/2015

3. FONDO INTEGRAZIONE SALARIALE assegno ordinario in sostituzione di trattamenti di assegni di solidarietà (Art 21)

I datori di lavoro, iscritti al Fondo di integrazione salariale, che alla data del 23 febbraio 2020 hanno in corso un assegno di solidarietà, possono presentare domanda di concessione dell’assegno ordinario che sospende e sostituisce l’assegno di solidarietà già in corso. La concessione può riguardare anche i i lavoratori dell’assegno a totale copertura dell’orario di lavoro.

Semplificando, spetta dunque alle imprese con più di 5 lavoratori che non abbiano normalmente diritto alla CIGO, a carico dei Fondi di Solidarietà istituiti presso l’INPS dalle diverse Categorie o del Fondo di Integrazione Salariale per le Categorie che non l’abbiano istituito. Caratteristiche e modalità gestionali sono sostanzialmente le stesse previste per la cassa integrazione ordinaria con causale “COVID-19 nazionale”, salvo che per il pagamento delle indennità a carico del FIS, che vengono pagate direttamente dall’INPS ai lavoratori.

I periodi in cui vi è coesistenza tra assegno di solidarietà e assegno concesso ai sensi dell’art 19 del decreto 18-2020 non sono conteggiati ai fini dei limiti di legge.

4. CASSA INTEGRAZIONE IN DEROGA (Art. 22)

Spetta a tutte le imprese che non abbiano accesso a nessuno degli ammortizzatori sopra elencati, comprese quelle dei settori agricolo, pesca e terzo settore, nonché gli Enti Religiosi riconosciuti civilmente.

Entità, modalità e durata (per un periodo massimo di 9 settimane) sono analoghe a quelle previste per la CIGO con causale COVID-2019, se non i seguenti elementi distintivi:

La richiesta va indirizzata alla Regione in cui si trova il sito produttivo e l’INPS eroga direttamente l’indennità ai lavoratori;

Per i datori di lavoro con più di 5 dipendenti è necessario l’accordo sindacale, anche in via telematica, con le organizzazioni sindacali più rappresentative a livello territoriali sulla durata della sospensione del rapporto di lavoro; per i datori che occupano fino a 5 dipendenti non è richiesto alcun accordo.

L’integrazione salariale per tutti è pari all’80% della retribuzione, ma nel rispetto di due massimali differenti in relazione all’importo dello stipendio.

Con la conseguenza che in nessun caso l’assegno percepito supererà i 1.199,72 euro mensili lordi.

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IL DIVIETO DI LICENZIAMENTO NEL DECRETO CURA ITALIA parte 1

L’art. 46 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18 cd “Cura Italia”, interviene, da un lato, in materia di procedure di licenziamento collettivo e, dall’altro, in materia di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo.

Restano esclusi da questa disciplina sia il licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, sia i licenziamenti ad nutum (licenziamento del dirigente, licenziamento per mancato superamento del periodo di prova e licenziamento colf e badanti) che il recesso del datore di lavoro dal contratto a termine, che rimangono efficaci indipendentemente dalla data della loro erogazione.

In materia di licenziamento collettivo, dove per licenziamento collettivo si intende il licenziamento di almeno 5 dipendenti nei successivi 120 giorni in aziende con oltre 15 dipendenti per unità locale o comunque 60 su tutto il territorio nazionale, il Decreto introduce, a decorrere dall’entrata in vigore dello stesso e sino ai sessanta giorni successivi, un divieto di avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223.

Inoltre, viene disposta la sospensione (sino ai sessanta giorni successivi all’entrata in vigore del Decreto) delle procedure ex legge 23 luglio 1991, n. 223 pendenti, se queste sono state avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020.

Pertanto fino al 16 maggio 2020 i licenziamenti collettivi già avviati al 23 febbraio 2020 sono sospesi, mentre dal 17 marzo 2020 è vietato avviarne di nuovi

Con riferimento invece ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ovvero quelli giustificati da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati nell’impresa (articolo 3 legge 15 luglio 1966 n. 604) viene previsto un generale divieto di recesso nei sessanta giorni successivi all’entrata in vigore del decreto.

Dei dubbi interpretativi si pongono rispetto alle procedure ex art. 7, L. 604/1966 avviate prima dell’entrata in vigore del decreto.

Infatti come è noto per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 ed occupati presso datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 L. 300/1970 (ovvero più di 15 dipendenti per unità locale o 60 nel territorio nazionale) il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dev’essere preceduto da una procedura conciliativa presso l’ITL competente.

Ai sensi della L. 92/2012 “Il licenziamento intimato all’esito del procedimento […] di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, […] produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato” e pertanto è ragionevole dedurre che se la comunicazione è avvenuta prima del 17 marzo 2020, il licenziamento successivo a tale data è pienamente legititmo e non rientra in questa nuova disciplina.

Si segnala, tuttavia, che, nonostante non sia prevista, per le procedure ex art. 7 L. 604/1966 pendenti un effetto sospensivo analogo a quello introdotto per i licenziamenti collettivi, l’indirizzo adottato attualmente da diversi ITL è quello di differire comunque le sedute di conciliazione determinando in concreto, un effetto comunque sospensivo dei procedimenti (cfr. avvisi all’utenza presenti sul sito web dell’INL).

E’ evidente che l’intento governativo di tale scelta, ovvero la sospensione e il divieto d licenziamento è quello di incentivare il più possibile l’adozione di misure alternative al licenziamento e, in particolare, in linea con i precedenti Decreti, gli strumenti organizzativi e contrattuali a disposizione dell’impresa (lavoro agile, fruizione ferie, permessi, CIG in deroga etc.), a salvaguardia dei livelli occupazionali nelle aziende.

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